Tesi di Laurea

La fotografia in ambito musicale


FOTOGRAFIA E MUSICA

Tesi di Laurea di Cesare Andrea Ferrari, Matricola n. 691843 – a.a. 2013 – Relatore: Prof. Federico Boni

Indice

INTRODUZIONE

NOZIONI UTILI

1. COS’È LA FOTOGRAFIA

1.1 L’esposizione
1.2 Le origini
1.3 Lo sviluppo
1.4 Stampa su carta e altre destinazioni

2. GLI ATTREZZI DEL MESTIERE
2.1 Macchine da grande formato 2.2 Digitali di fascia alta
2.3 Ottiche
2.4 Supporti di memoria
2.5 Point and shoot e bridge
2.6 Altro

3. CENNI STORICI

4. EVOLUZIONE DELL’IMMAGINE

5. LA FOTOGRAFIA IN AMBITO MUSICALE
5.1 Gli esordi
5.2 Verso nuove forme espressive

6. FOTOGRAFARE UN CONCERTO
6.1 Normativa e foto illegali
6.2 L’attimo, il pathos, l’inquadratura
6.3 Le limitazioni: scarsa luce e velocità dell’azione 6.4 I progressi della fotografia digitale

7. I SOGGETTI
7.1 La maschera dell’artista
7.3 La mascotte e i personaggi costruiti
7.3 Il ruolo dell’immagine nella costruzione delle moderne rock star

8. IL RUOLO DELL’IMMAGINE NEL MONDO

BIBLIOGRAFIA


IntroduzIone

L’oggetto di questa tesi è l’applicazione della tecnica fotografica al campo dell’arte musicale, con particolare attenzione su due aspetti:

  1. il rapporto tra l’operatore/fotografo e l’artista protagonista della performance;

  2. l’influenza che l’immagine può avere, sul pubblico e sul musicista stesso.

Risulta indispensabile un breve accenno alla storia del mezzo fotografico, per poter meglio comprendere l’evoluzione che ha avuto a livello tecnico, le difficoltà degli operatori del settore e l’impatto che ha generato sulla società. Quello che un tempo era considerato quasi un sortilegio, un mero tecnicismo fine a se stesso, oggi è riconosciuto universalmente come forma d’arte, e più di molte altre si è ritagliato uno spazio importante nella vita di milioni di persone.

Basti pensare che ogni giorno vengono caricati su Facebook oltre trecento milioni di fotografie, per un peso complessivo di cinquecento terabyte (dato del 2013), senza contare gli altri social network come Instagram e Flickr (escludo Twitter dalla trattazione, poiché il suo utilizzo è meno legato all’immagine).

L’immagine è quantomai importante nelle nostre vite, tanto che ne siamo condizionati ogni giorno e modifichiamo la nostra identità in base a essa. La moltitudine di foto che vengono immesse in rete ogni giorno fornisce una rappresentazione della realtà, un supporto mnemonico e, in ultima analisi, una chiave di lettura del proprio “io” e dell’ambiente circostante. Il tema è delicato, in quanto una foto – un artefatto terzo, che non è né soggetto né oggetto – non è la realtà, ma solo una sua effimera imitazione, per quanto tecnicamente perfetta o gradevole.

L’immagine è percepita, seppure con una maggiore dose di scetticismo rispetto al passato, come un’autentica duplicazione del reale alimentando, in tal modo, l’idea concreta di una fotografia intesa quale possibile “prolungamento” del soggetto originario, ossia del reale.

Gerardo Regnani (30/03/2009)

Soprattutto con l’avvento del digitale è importante ricordare che qualunque artefatto visivo può essere alterato. Se da un lato questo è un ausilio indispensabile per i professionisti dell’immagine (basti pensare agli spot promozionali o alle foto di moda, dove ogni minimo dettaglio deve contribuire a rendere un’idea di perfezione totale, spesso addirittura avulsa dalla realtà), dall’altro influenza la nostra capacità di realizzare mappe concettuali accurate del mondo che ci circonda.

Secondo Erving Goffman

quando un individuo viene a trovarsi alla presenza di altre persone, queste, in genere, cercano di avere informazioni sul suo conto o di servirsi di quanto già sanno di lui. È probabile che il loro interesse verta sul suo status socio-economico, sulla concezione che egli ha di sé, sul suo atteggiamento nei loro confronti, sulle sue capacità, sulla sua serietà, ecc. Per quanto possa sembrare che alcune di queste informazioni siano cercate come fini a se stesse, generalmente, alla loro base, stanno motivi molto pratici. Le notizie riguardanti l’individuo aiutano a definire una situazione, permettendo agli altri di sapere in anticipo che cosa egli si aspetti da loro e che cosa essi, a loro volta, possano aspettarsi da lui: tali informazioni indicheranno come meglio agire per ottenere una sua determinata reazione.

Oggi tuttavia non si hanno a disposizione solo le persone fisiche, ma anche (e anzi, in certi casi soprattutto) gli avatar virtuali, che sono rappresentazioni non realistiche delle persone; a partire proprio dalle foto che vengono utilizzate per mascherare questi avatar.

Per quanto riguarda la fotografia di eventi live, il ricorso alla modifica digitale delle immagini è sconsigliabile e di solito si limita alla correzione della luce: nel tentativo di ritrarre la performance artistica è importante preservare la spontaneità dell’immagine, evitando l’introduzione di alterazioni postume, in modo da offrire una rappresentazione realistica ed emozionale del soggetto fotografato. Anche le piccole imperfezioni contribuiscono all’unicità degli artefatti prodotti in questo ambito, gli espedienti che risulterebbero indispensabili per la fotografia di moda (come la patinatura della pelle del volto, che comprende l’eliminazione di eventuali goccioline di sudore o capelli fuori posto) non farebbero che appiattire l’immagine fino a privarla di quell’aura che invece viene percepita dal pubblico durante l’esibizione.

Risulta invece indispensabile l’alterazione – chiamiamola artistica – dele immagini, quando si opera in ambito promozionale: le foto che accompagnano l’uscita di opere musicali includono quasi sempre grafica e post-produzione elaborata.

Le tecniche di alterazione dell’immagine rimangono controverse, anche se non esiste una regola precisa che stabilisce quando sia lecita oppure no, il suo utilizzo è ampiamente diffuso, non solo tra i professionisti.

Nonostante la crisi economica globale di questi anni, il mondo dell’immagine vive oggi un’incredibile espansione. La rivoluzione che dagli ani ‘70 ha incrementato l’utilizzo del racconto a mezzo immagini (soprattutto sulla carta stampata, con gli allegati delle varie testate e i magazine di settore, in particolare quelli dedicati alle donne) e la successiva rivoluzione di internet e dei social network (soprattutto a partire dal 2005, con l’espansione di Facebook) hanno incrementato in maniera esponenziale la velocità e semplicità con cui le immagini viaggiano per il mondo, e anche la loro quantità.

Impossibile non citare Tv Sorrisi e canzoni, il settimanale edito da Mondadori, che nel 1952 fu uno dei primi a fondare la sua linea editoriale su argomenti legati unicamente al mondo dello spettacolo. Per molti anni rimase l’unica rivista con licenza di pubblicare i testi delle canzoni, e dato che la sua diffusione precedette quella del televisore, si affermò come punto di riferimento per gli appassionati che cercavano interviste, foto e novità sui propri artisti preferiti.

Oggi sono milioni le persone che producono materiale fotografico dei generi più disparati, compreso quello musicale. Chiunque partecipi a un evento scatta qualche foto, contribuendo a implementare la mole di immagini di cui si nutre la rete. Ma non tutti sono in grado di creare immagini di qualità, per carenza di tecnica e di equipaggiamento. Per questo motivo la schiera degli addetti ai lavori rimane ben nutrita, nonostante i problemi derivanti dalla crisi ne mettano a dura prova l’economia.

Viste le difficoltà a far notare il proprio lavoro in un mondo dominato dall’immagine, in cui ciascuno può pubblicare le proprie foto, i fotografi professionisti optano spesso per una tattica fondata sulla quantità a scapito della qualità.

L’espansione dei mezzi di informazione e la loro sempre crescente rapidità hanno portato allo sviluppo di immense banche dati di immagini – di cui le maggiori sono quelle del gruppo Getty Images, iStock e Shutterstock –, da cui è possibile attingere a pagamento per gli scopi più disparati.

Il proliferare dei siti di microstock favorisce il fenomeno della simulazione fotografica, per cui l’immagine non solo viene modificata in post-produzione, ma l’intero scatto viene attentamente pianificato e costruito: per esempio si mettono in posa dei modelli affinché la foto risulti evocativa di una particolare situazione, azione o sentimento. Questo filone fotografico è finalizzato unicamente alla vendita, soprattutto editoriale, e mantiene ben poco di artistico o di spontaneo (rimanendo pur sempre ineccepibile sotto il punto di vista tecnico), tuttavia anche la fotografia musicale ne ha fatto – e continua a farne – ampio uso.

Anche se la fotografia live rimane il mezzo più genuino e autentico per rappresentare l’artista e quello che offre durante la sua performance, non è insolito che vengano preferiti scatti costruiti in studio. Questo per due motivi: prima di tutto una foto scattata in studio ha generalmente delle caratteristiche qualitative che ne consentono un utilizzo più agevole – uno scatto live spesso risulta leggermente mosso o micromosso, l’esposizione può non essere perfetta, la composizione può essere un problema se il soggetto riempie troppo il frame o viceversa, e data la velocità dell’azione in corso, non sempre si ha il tempo di ragionare con lucidità o di scattare una seconda posa della medesima scena; in secondo luogo una foto di studio può essere utilizzata per veicolare contenuti diversi, data la sua natura decontestualizzata.

Al contrario, una fotografia live è generalmente ricollegabile a un determinato spettacolo (i fan più attenti sono sempre in grado di ricordare le scenografie, l’abito di scena del loro cantante preferito, il colore della chitarra usata in quel particolare tour, la presenza o meno di coristi, ospiti o ex membri della band e così via), e per questo motivo può servire solo per recensire un determinato concerto di un determinato tour, difficilmente viene utilizzata per promuovere spettacoli o eventi futuri.

Nella rincorsa della perfezione e nel tentativo – spesso centrato – di veicolare contenuti attentamente pianificati e studiati per soddisfare le necessità di determinate fasce di mercato, gli artisti sono impegnati da anni nella produzione di immagini che possano ampliare l’esperienza offerta ai fan da un CD, un DVD o uno spettacolo. Per questo motivo si assiste alla suddivisione delle fotografie musicali in categorie ben definite, che seguono canoni funzionali in vigore ormai da anni.

La creatività non ha più lo stesso ruolo di un tempo, in quanto risulta spesso istituzionalizzata e imbrigliata in regole e schemi che limitano la piena realizzazione di un prodotto originale; tuttavia la tecnica e il know-how dei professionisti del settore sono immensamente progrediti in questi anni, e sarebbe sbagliato non considerarli artisti. Anche se il mercato dell’immagine si è suddiviso in generi e categorie abbastanza rigide, rimangono margini di creatività per interpretare il soggetto in base al proprio punto di vista. È proprio questo che ancora può fare la differenza tra un prodotto di successo e un flop, dal momento che chiunque è in grado di ottenere foto professionali, ma ben pochi sono ancora capaci di produrre foto artistiche/creative.


nozIonI utIlI

Apertura: il termine deriva dal fatto che la luce penetra nella camera oscura attraverso un buco; l’apertura è la misura delle dimensioni di questo buco, sia esso un moderno obiettivo o un semplice foro praticato in una scatola. L’apertura si misura in f-stop.

Diaframma: si tratta del meccanismo che regola l’apertura. Il diaframma normalmente è composto da lamelle che, poste all’interno bel barilotto dell’obiettivo, scorrono le une sulle altre aumentando o diminuendo il diametro attraverso cui passa la luce. Questo meccanismo è utile perché permette di regolare la profondità di campo della foto.

Diritto d’autore: la legge stabilisce che l’autore della fotografia sia titolare dei diritti relativi (e cedibili) per 20 anni nel caso di una foto semplice o descrittiva, mentre nel caso di una foto creativa o artistica i diritti valgono fino a 70 anni dalla morte del fotografo.

Grandangolo: comunemente si intende una lente con lunghezza focale inferiore a 50mm. Il grandangolo ha una visuale di campo molto ampia, che permette di includere nel frame soggetti anche distanti tra loro o molto grandi – molto utilizzato in foto di paesaggio.

Profondità di campo: è la porzione di fotografia che risulta a fuoco, di solito corrisponde perfettamente con il soggetto della foto.

Sensibilità ISO: è la misura della sensibilità alla luce del sensore. Aumentandola è possibile scattare con meno luce, ma a scapito della qualità dell’immagine.

Stabilizzazione ottica: si tratta di un meccanismo di alta precisione che consente di scattare con maggiore tranquillità, di solito viene incorporato direttamente nelle ottiche e consiste in un anello di vetro e metallo che bascula all’interno del barilotto, correggendo le vibrazioni causate da una presa poco ferma sulla macchina.

Stop: è l’unità di misura con cui si gestiscono le impostazioni relative all’esposizione fotografica; lo stop è un’unità di misura concepita in modo tale che all’aumentare di uno stop la quantità di luce varia del 100%.

Teleobiettivo: comunemente si intende una lente con lunghezza focale superiore a 50mm. I teleobiettivi consentono inquadrature ravvicinate di soggetti distanti, e a causa della maggiore lunghezza focale presentano una profondità di campo molto ridotta.

TTL: sistema incorporato nelle moderne macchine reflex, consente di eseguire la misurazione dell’esposizione e la messa a fuoco direttamente in camera, con l’analisi spettrografica della luce attraverso la lente (through-the-lens).

Zoom: è un obiettivo con lunghezza focale variabile, ovvero che consente, tramite la variazione della distanza tra le lenti e il sensore, di avvicinare o allontanare il soggetto senza bisogno di spostarsi fisicamente.


1. Cos’è la fotografIa

La parola fotografia deriva dal greco (φως̃, luce; γραφή, scrittura): genericamente indica il processo mediante il quale la luce, che si riflette sulla materia (in questo caso sul soggetto della foto), viene proiettata, attraverso un foro, su una sostanza fotosensibile (che può essere la pellicola o un moderno sensore digitale), impressionandola, e creando così un’istantanea.

Nel corso del tempo il termine fotografia ha inglobato diverse altre tecniche e operazioni, tutte volte alla creazione di un prodotto finale visivo; oggi, quando si parla di fotografia, si danno spesso per scontati i procedimenti originari che hanno portato allo sviluppo delle moderne macchine fotografiche digitali, le cosiddette point and shoot, economiche e alla portata di tutti, ma soprattutto di così facile utilizzo (come suggerisce il nome stesso, “punta e scatta”) che sembrano rendere superflua la conoscenza delle dinamiche che governano il sensore, l’otturatore, l’apertura del diaframma, ecc.

Tuttavia, per comprendere la portata del fenomeno e l’evoluzione tecnica del mezzo che l’ha resa possibile, è necessario prendere contatto con le sue forme primitive.

1.1 L’esposizione

È utile innanzitutto approfondire il concetto di esposizione. Il cosiddetto triangolo dell’esposizione si compone di:

  1. apertura;

  2. tempi di scatto;

  3. sensibilità della pellicola.

Sono i tre fattori su cui si agisce per ottenere la giusta quantità di luce e impressionare correttamente la superficie fotosensibile. I tre fattori sono convenzionalmente misurati in stop, unità di misura che segue la regola della progressione geometrica – per cui ogni variazione di stop comporta una variazione del 100% in termini di quantità di luce.

L’apertura fa riferimento al diaframma, e regola delle lamelle che si aprono o si chiudono in cerchio all’interno del barilotto dell’obiettivo, modificandone il diametro e, di conseguenza, la quantità di luce che riesce a passare.

I tempi di scatto sono regolati dall’otturatore, una tendina che espone la pellicola alla luce per il tempo necessario affinché avvenga l’esposizione.

Infine la sensibilità (misurata in ISO) determina il tempo di reazione della pellicola alla luce una volta che questa viene esposta dall’otturatore.

La regolazione dei tre fattori non è esente da effetti secondari. Agire sull’apertura modifica anche la profondità di campo della foto, ovvero l’area che risulta a fuoco; tempi di scatto veloci consentono di congelare oggetti o persone in movimento, mentre tempi lunghi vengono utilizzati per creare effetti artistici come scie fantasma, strisce di luce o sfocato da movimento; fotografare con ISO bassi produce risultati migliori, mentre ISO alti restituiscono fotografie disturbate dalla presenza di rumore, o granulosità, gamma dinamica ridotta e viraggio delle tonalità di colore.

Ottenere l’esposizione corretta è un procedimento che porta a bilanciare i tre fattori, se la foto è sottoesposta (buia) si possono aumentare gli ISO, se il soggetto viene mosso si aumentano i tempi di scatto per bloccare il movimento, se si vuole sfocare lo sfondo si aumenta l’apertura del diaframma; ogni incremento di uno stop per un fattore deve essere bilanciato da un decremento equivalente su un altro fattore, per mantenere il bilanciamento inalterato.

Con le macchine moderne l’esposizione è facilitata, oltre che dagli esposimetri elettronici integrati, anche dalle modalità automatiche, che lasciano al processore la libertà di impostare tutti e tre i parametri, a seconda della lettura della luce ambientale attraverso la lente (TTL). Inoltre la tecnologia consente oggi di stampare foto pressoché istantaneamente (dalla Polaroid ai moderni smartphone, è possibile ottenere una stampa in pochi secondi; le moderne stampanti a sublimazione sono in grado di produrre stampe in meno di 50 secondi ricevendo il segnale via wi-fi) e senza i costi di sviluppo della pellicola. Ben più difficile risultava l’operazione per chi per primo vi si cimentò.

1.2 Le origini

Durante le prime fasi di sviluppo, il procedimento faceva impiego di una pellicola di celluloide (più avanti sostituita dai materiali plastici come il poliestere), morbida e facile da modellare; su questa superficie veniva steso uno strato di materiale contenente cristalli fotosensibili (alogenuro d’argento).

Quando questi cristalli vengono colpiti dalla luce (vengono cioè “esposti” alla luce dal rilascio dell’otturatore) si verifica una reazione chimica, che si manifesta con intensità diversa a seconda della quantità di luce ricevuta; in questo modo si forma sulla pellicola quella che viene definita “immagine latente”.

La fase di esposizione si conclude qui, ma per arrivare al prodotto finito (la foto come la intendiamo oggi) sono necessari altri passaggi, che entrano di diritto nella storia della tecnica fotografica. Al termine del processo di esposizione, infatti, l’immagine ottenuta sulla pellicola non è visibile; la sola esposizione serve unicamente a scrivere le informazioni – date dalla luce nel particolare lasso di tempo dello scatto – sulla sostanza fotosensibile. A questo punto è necessario procedere alle operazioni di sviluppo.

1.3 Lo sviluppo

Durante la fase di sviluppo la pellicola, estratta dalla fotocamera, viene immersa in una serie di vasche contenenti soluzioni di acqua e acidi: questo procedimento serve a separare la sostanza impressionata da quella inerte, svelando i tratti della scena fotografata.

Al fine di ottenere la massima qualità possibile è necessario calcolare quattro fattori:

  1. la densità delle soluzioni utilizzate;

  2. il tempo di immersione;

  3. la temperatura;

  4. l’agitazione.

Questo perché una soluzione più o meno densa ha effetto in più o meno tempo sulla pellicola, fattore che è determinato anche dalla temperatura (all’aumentare della temperatura il tempo di reazione sarà minore, di solito si sfrutta una temperatura tra i 18 e i 22 gradi Celsius).

L’agitazione invece serve a smuovere gli strati di materiale in modo che la reazione sia omogenea su tutta la superficie del negativo; per questo nel corso degli anni si è arrivati a stabilire dei criteri che consentono di calcolare esattamente il numero, il tempo e l’intensità di oscillazioni che la tank (la vasca di sviluppo) deve subire per restituire un’immagine fedele e con poca grana.

Terminato lo sviluppo il negativo viene immerso nella vasca d’arresto, che interrompe la reazione chimica e impedisce il deterioramento della materia fotosensibile. A questo punto si procede al bagno di fissaggio, mediante il quale si impedisce che successive esposizioni alla luce possano danneggiare l’immagine impressa nella sostanza fotosensibile – per questo motivo le fasi di sviluppo e fissaggio devono svolgersi in assenza di luce, nelle cosiddette camere oscure, stanze attrezzate e prive di emissioni luminose che distruggerebbero il negativo.

1.4 Stampa su carta e altre destinazioni

A questo punto il negativo è pronto per essere stampato. Nel corso degli anni si sono perfezionate le tecniche anche per il procedimento di stampa, oggi è possibile stampare milioni di copie a partire da un singolo negativo (sia digitale che analogico). Anche i supporti si sono evoluti, oggi si può scegliere tra svariati tipi di carta semplice, carton- cino e carta fotografica, lucida e opaca, per ottenere effetti diversi o semplicemente per avvicinarsi al miglior rapporto tra contrasto, colori e dettagli dell’immagine.

In tempi recenti il costo della stampa commerciale (lo sviluppo di un rullino, o la stampa di materiale digitale da memory card) è diminuito, sopratutto a causa del pro- liferare del mezzo digitale: supporti come tablet, PC, palmari e smartphone faticano ancora a sostituire libri e giornali, ma hanno avuto gioco facile nell’imporsi come nuovo mezzo dominante nella fruizione dell’immagine. Non solo, ma il rapporto tra immagine e tecnologia è così stretto che ogni supporto di nuova generazione è, oltre che portale di fruizione, anche mezzo di produzione di immagini – i vari tablet, cellulari e computer sono tutti dotati di webcam e macchina fotografica incorporata, e consentono a chiunque di creare le proprie opere d’arte con pochi click. Una novità interessante è rappresentata da applicazioni come Instagram, che consentono di applicare filtri fotografici avanzati (sebbene si tratti di algoritmi preimpostati che non concedono all’utente una vera lib- ertà di manipolazione del prodotto) e realizzare scatti molto suggestivi, che vengono condivisi automaticamente sui social network connessi all’account dell’utente.

2. glI attrezzI del mestIere

Le moderne macchine fotografiche possono essere distinte in diverse categorie: le macchine digitali professionali, le compatte (dette anche point and shoot, per la loro facilità di utilizzo, è infatti sufficiente puntare e premere il pulsante dell’otturatore, la macchina decide automaticamente tempi, diaframmi e sensibilità ISO) e le analogiche, che sono ancora presenti sul mercato e ne rappresentano ancora una fetta considerevole, soprattutto tra i professionisti di alta moda, ma anche fotoamatori e nostalgici. Bisogna poi parlare dei differenti formati che la pellicola (o il sensore) può assumere, dato che questo incide fortemente sui risultati.

2.1 Macchine di grande formato

Si tratta del top in merito alla qualità dell’immagine che è possibile ottenere con le odierne tecnologie. Gli apparecchi di grande formato sono quelli in cui il supporto fotosensibile supera le dimensioni della classica 24x36mm. La pellicola 10x12cm è la più utilizzata tra i supporti di grande formato, ma si può arrivare anche a 20x25cm.

L’indubbio vantaggio di questo sistema è la dimensione del prodotto: le lastre impressionate saranno tanto grandi da poterle stampare in dimensioni davvero considerevoli, senza perdere nulla in qualità (i tabelloni pubblicitari delle grandi campagne di promozione vengono realizzati in grande formato, proprio per poter essere stampati su supporti dell’ordine di alcuni metri quadrati di superficie).

Gli apparecchi di grande formato inoltre consentono una maggiore precisione e comodità per quanto riguarda il lato creativo: è infatti possibile

cambiare a piacere la forma e le dimensioni di un oggetto, modificare la messa a fuoco e la nitidezza, esagerare o ridurre la prospettiva, tenere sotto controllo le linee convergenti, ottenere la massima profondità di campo senza necessariamente dover agire sul diaframma. Tutto senza muovere la macchina, che anzi dovrà restare sempre perfettamente “in bolla”,

Michele Vacchiano, (2010)

in altre parole si può agire con maggiore incisività su profondità di campo, prospettiva e senso di profondità, senza nemmeno dover spostare il cavalletto.

Il sistema di inquadratura prevede che l’immagine venga proiettata su di un vetro smerigliato incorporato nella camera; si tratta di un supporto molto più grande dei puntatori di qualunque macchina reflex di piccolo formato, e questo consente una maggiore cura della composizione e dei dettagli durante la preparazione allo scatto (spesso quando si fotografa, nel mirino ottico o sul monitor delle macchine comuni risulta impossibile curare la messa fuoco o la composizione, perché in molti casi il viewfinder e il monitor restituiscono un’immagine ridotta di quella che sarà la fotografia).

Purtroppo queste macchine non sono alla portata di tutti, in quanto possono essere utilizzate unicamente in modalità manuale. Si tratta fondamentalmente di macchine analogiche, in cui la meccanica e la chimica ancora non sono state soppiantate completamente dall’elettronica. Per questo motivo i costi di queste apparecchiature sono molto più elevati, e comportano un ingombro molto maggiore – per l’utilizzo di apparecchi da grande formato non si può prescindere dall’utilizzo del treppiede, sarebbe impossibile ottenere immagini a fuoco scattando a mano libera.

Inoltre – e questo è il punto più debole del grande formato – esporre una lastra di queste dimensioni richiede un tempo davvero notevole, in alcuni casi si parla di minuti. Questo rende impossibile realizzare fotografie di soggetti in movimento in condizioni di scarsa luminosità. Per questo la fotografia di grande formato, al momento, rimane confinata all’ambito pubblicitario e paesaggistico, e l’unico utilizzo che è possibile farne in ambito musicale è la produzione di poster in grande formato di artwork basati su still life, composizioni creative o pose lunghe.

2.2 Digitali di fascia alta

Le moderne reflex DSLR – sia le amatoriali, di formato ridotto, sia quelle professionali, in formato 24x35mm, detto anche pieno formato – incorporano il concetto di camera oscura, un sensore digitale in grado di assorbire la luce, un otturatore a tendina e un processore (o un gruppo di processori in parallelo, per i modelli più avanzati) che gestisce la conversione dei segnali elettrici dal sensore in un file multimediale modificabile.

L’esposimetro incorporato, elemento indispensabile per una corretta valutazione della luce durante le riprese, funziona con sistema chiamato TTL, che legge la luce direttamente attraverso la lente, consentendo di raggiungere risultati altamente precisi – a differenza dei modelli privi di TTL, in cui l’esposizione risulta falsata dal fatto che l’area fotografata è diversa da quella effettivamente oggetto di misurazione della luce. Gli esposimetri moderni lavorano con un algoritmo che converte la somma di tutte le informazioni luminose nella frequenza del grigio 18%, e fornisce un valore di esposizione che è accurato nella maggior parte dei casi.

In altre parole, se la lettura TTL invia l’immagine di un soggetto scuro su sfondo bianco, il processore elabora la somma del bianco e del nero per ottenere il grigio 18%, e fornisce il calcolo dell’esposizione automatica. Ovviamente è possibile discostarsi dai valori qualora l’esposimetro sia tratto in inganno da luci abbaglianti od ombre troppo profonde, o quando si voglia infrange le regole dell’esposizione per fini creativi.

La reflex digitale consente una libertà di espressione in continuo sviluppo: il controllo sulla profondità di campo (cioè l’area a fuoco di una foto e l’area sfocata) e i tempi del diaframma migliorano di modello in modello, di pari passo con la sensibilità ISO. Gli attuali modelli di punta raggiungono un’escursione da f/1.2 a f/36 di apertura, una regolazione dei tempi da un minuto a 1/8000 di secondo e una sensibilità ISO che va da 50 a 100.000 , uniti a un sensore che arriva a creare immagini da 30 megapixel; questo significa che è possibile fare fotografie di alta qualità in situazioni scarsamente illuminate, a mano libera (senza bisogno di cavalletti, treppiedi o monopiedi) e con totale controllo creativo sull’esposizione.

Elemento di grande versatilità delle macchine reflex è certamente la possibilità di variare la lunghezza focale con cui si scatta, in altre parole si possono usare obiettivi diversi a seconda delle necessità. Gli obiettivi grandangolari saranno utilizzati per includere più dettagli possibile in un paesaggio, mentre i teleobiettivi permetteranno di catturare dettagli anche dalla lunga distanza.

Si tratta dei dispositivi fotografici avanzati attualmente più diffusi nel mondo, grazie alla comodità e alle diverse fasce di prezzo che sono studiate per servire il mercato nella sua globalità: la reflex più a buon mercato si attesta oggi intorno ai 200 €. Resta però il fatto che nella fotografia, più che in molti altri settori, la qualità dell’equipaggiamento è direttamente proporzionale alla qualità del prodotto.

2.3 Ottiche

Le lenti si distinguono in categorie basate sulla velocità e sulla lunghezza focale: le lenti veloci (o luminose) consentono un’apertura massima superiore a f/2.8, ed è quindi possibile, permettendo a una maggiore quantità di luce di colpire il sensore, ridurre i tempi di scatto o gli ISO, garantendo una corretta esposizione anche in situazioni scarsamente illuminate. Da f/3.5 in su si parla di lenti standard.

La distinzione classica in base alla lunghezza focale stabilisce che un obiettivo con lunghezza focale inferiore a 50mm è un grandangolo, mentre se è superiore a 50mm è un teleobiettivo. Un grandangolo classico è il 24mm, particolarmente adatto a paesaggi o foto d’interni, grazie al suo angolo di visuale ampio che permette di includere più dettagli in un singolo frame. I teleobiettivi sono molteplici, la maggior parte dei quali sono anche zoom, consentono cioè di variare la lunghezza focale per migliorare l’inquadratura senza bisogno di avvicinarsi o allontanarsi fisicamente dal soggetto.

Per lunghezza focale si intende la distanza tra il centro ottico della lente e il sensore (vale anche per la pellicola o qualunque altro supporto su cui si vada a riflettere l’immagine, compreso il muro delle prime camere oscure). Il centro ottico può non corrispondere esattamente all’elemento frontale della lente, nel caso di obiettivi composti da più lenti la lunghezza focale effettiva è diversa da quella percepita: si vede soprattutto nei superzoom, in cui il numero indicato (per esempio 300mm) non corrisponde esattamente alla lunghezza del barilotto.

2.4 Supporti di memoria

Una volta scattata la foto, per consentire la memorizzazione dei dati, questi apparecchi necessitano di una memory card, un supporto magnetico su cui vengono scritte le informazioni – le operazioni classiche di esposizione e lavorazione dell’immagine latente sono stati separati rispetto alla vecchia pellicola: il sensore fa il lavoro della pellicola nel ricevere la luce, mentre l’immagine viene salvata direttamente sulla scheda di memoria.

Questa innovazione rende possibile scattare migliaia di foto senza più preoccuparsi dei costi di pellicola e sviluppo, inoltre accorcia i tempi di stampa del prodotto, che in teoria può essere già immediatamente pronto all’utilizzo, è sufficiente scaricare i dati dal supporto magnetico.

Un apparecchio di questo tipo è l’ideale per realizzare foto di qualità, anche se, per ora, il prezzo molto elevato e le dimensioni sono un forte limite.

Le schede maggiormente utilizzate dalle moderne reflex sono di tipo SD Card o Compact Flash Card, sono veloci e affidabili e consentono lo stoccaggio di migliaia di dati in tempi rapidissimi – nella fotografia in movimento spesso si eseguono raffiche da dieci, venti foto per volta, che vengono immediatamente salvate sul supporto. La maggior parte verranno poi scartate, ma la possibilità di eseguire raffiche veloci su un’azione in movimento può fare la differenza per ottenere buoni scatti.

Di recente è stato sviluppato un sistema che consente di collegare le macchine da ripresa direttamente a un computer o a un monitor; in questo modo non solo è possibile salvare le immagini direttamente sull’hard disk del computer, ma si possono visionare in tempo reale le inquadrature sul monitor, per verificare bilanciamento del colore, messa a fuoco, composizione e istogramma su dei monitor calibrati.

Inoltre è possibile scattare in modalità remota, senza toccare la macchina, riducendo al minimo il rischio di foto mosse a causa di vibrazioni indesiderate. In questo senso le reflex digitali si avvicinano a colmare il gap con le macchine da grande formato.

2.5 Point and shoot e bridge

Questa tipologia di dispositivo è sempre più diffusa in ogni angolo del mondo, proprio a causa delle sue caratteristiche estremamente allettanti (dato del 2013, nel 2020 le point and shoot sono praticamente estinte a causa delle migliorate prestazioni sugli smartphone).

Decisamente più facili da utilizzare, meno costose e ingombranti, le macchine point and shoot sono la scelta più comoda per chi si avvicina al mondo della fotografia senza possedere una conoscenza specifica dei meccanismi che ne regolano l’arte.

Progettata appositamente per essere alla portata di tutti, la macchina compatta è in grado di autoregolare l’esposizione in modo da offrire nella maggioranza dei casi un risultato accettabile. Molte delle moderne compatte point and shoot non offrono nemmeno la possibilità di scattare in manuale, ma solo in automatico, lasciando quindi che sia il sensore a stabilire tempo di esposizione e sensibilità.

Il tallone d’Achille delle macchine amatoriali è comunque sempre la scarsità di luce, situazione in cui le immagini catturate perdono significativamente di qualità.

L’evoluzione delle compatte è rappresentato dalle macchine bridge, che mantengono le caratteristiche delle point and shoot, ma incorporano elementi personalizzabili, come le impostazioni manuali per l’esposizione o la possibilità di cambiare lente.

2.6 Altro

È doveroso precisare che esistono altri tipi di dispositivi in grado di catturare immagini, anche se per conformazione e prestazioni si collocano ben al disotto delle compatte point and shoot. Si tratta di telefoni cellulari, tablet, lettori Mp3, computer e altri dispositivi digitali che, sebbene progettati per tutt’altro scopo, sono in grado di prendere istantanee.

Anche le modalità di fruizione sono differenti, molti di questi dispositivi sono progettati per caricare i files direttamente (ed esclusivamente) su siti o social network come Facebook o Instagram. Proprio il fattore di interattività che consentono questi strumenti li ha resi in breve tempo le macchine fotografiche più popolari e diffuse sul pianeta: con i moderni smarthphone è possibile scattare fotografie e caricarle direttamente sui portali internet senza nemmeno occupare la memoria interna del telefono.

Le reflex di ultima generazione si stanno adattando e cominciano a incorporare trasmettitori wireless per competere con i cellulari su questo campo e attrarre nuove fasce di mercato, soprattutto tra i giovani, sempre più avvezzi alla produzione di materiale visivo proprio.

3. CennI storICI

Il concetto di camera oscura, che è alla base della fotografia, era noto già in antichità; pare che Aristotele, con i suoi studi sulla luce, fosse arrivato, nel IV secolo a. C., molto vicino a produrre la prima teoria fotografica attendibile:

Oggetto della vista è il visibile. Visibile è il colore e anche qualche altra cosa [i corpi fosforescenti]. Il visibile è in realtà il colore e il colore è ciò che sta sulla superficie degli oggetti visibili per sé: per sé intendo non ciò che è visibile per la sua essenza ma ciò che ha in se stesso la causa della sua visibilità. [...] Per ciò il colore non è visibile senza luce, ma il colore di qualsiasi cosa si vede nella luce. Pertanto è della luce che si deve dire prima di tutto che cos’è.

Sull’anima, II, 7

Il filosofo ha inquadrato correttamente il fenomeno luminoso, stabilendo che è grazie a esso se possiamo distinguere forme e colori. È da attribuire sempre ad Aristotele la creazione della prima camera oscura: per poter osservare direttamente un’eclissi solare senza rimanere accecato, egli praticò un piccolo foro su una parete, lasciando entrare la luce in una stanza buia. L’immagine capovolta degli astri venne proiettata contro il muro interno in una stanza buia; la sua pionieristica intuizione è alla base di ogni procedimento fotografico fino ai giorni nostri.

Il termine camera obscura viene coniato dall’astronomo egiziano Alhazan Ibn Al-Haitham, che intorno all’anno 1000 a. C. condusse studi approfonditi sulla luce, in particolare quella del Sole, giungendo alle stesse conclusioni di Aristotele – lo scienziato replicò addirittura l’esperimento del buco nel muro, sempre in occasione di un’eclissi.

Si deve all’erudito italiano Girolamo Cardano, nel 1550, l’introduzione della lente di vetro convesso che, posizionata nel foro da cui passa la luce, consentiva di ottenere immagini considerevolmente più nitide. Qualche anno dopo Giambattista Della Porta pubblicò il suo Libro Magia Naturalis, in cui descrive una camera oscura sul modello di quella di Cardano, ovvero munita di lente, ma con l’aggiunta di un sistema di specchi, che aveva l’effetto di proiettare l’immagine dal verso giusto: fino a quel momento, infatti, le immagini proiettate sulla parete risultavano capovolte.

Queste scoperte furono determinanti anche per lo sviluppo delle altre arti visive, infatti la camera oscura – nella sua ultima forma, definita portabilis – divenne ausilio indispensabile dei pittori rinascimentali: una scatola con una lente da un lato, per far entrare la luce, e un vetro smerigliato sull’altro lato, consentiva agli artisti di vedere l’immagine nitidamente e copiarne i tratti con precisione (questo metodo era utilizzato in particolare per ritratti e paesaggi).

Nel 1657 vennero introdotte due assi scorrevoli all’interno della camera oscura: in questo modo, variando la distanza tra la lente e la parete su cui è riflessa l’immagine, i due cassetti permettevano di mettere a fuoco con precisione il soggetto riflesso. Il moderno schema di riflessione della luce presente nelle moderne macchine fotografiche reflex fu perfezionato nel 1676 dal chimico tedesco Johann Heinrich Schulte, che costruì una camera oscura sul modello di quella di Schott, con uno specchio collocato a 45 gradi rispetto al fascio di luce in entrata: lo specchio rifletteva la luce contro un vetro opaco posto come coperchio della scatola.

A questo punto entra in gioco la parte chimica e fisica del procedimento fotografico. Fin qui è stata infatti perfezionata la camera oscura, che permette di proiettare la luce su una superficie in modo da poter osservare un’immagine, ma per giungere al risultato finale – un artefatto stampato duraturo – è necessario scrivere le informazioni della luce su un qualche tipo di supporto.

Fu lo stesso Schulze a scoprire la sensibilità dei sali d’argento alla luce, ed è a lui che dobbiamo il termine fotografia. Egli sapeva che il cloruro d’argento (NaCl) ha la caratteristica di presentarsi con un colore bianco nell’oscurità, ma vira al violetto o addirittura al nero se esposto ai raggi solari. Partendo da questo presupposto fondò un nuovo ramo della scienza, che chiamò fotochimica. Sfortunatamente Schulze non riuscì a portare avanti gli esperimenti fino a ottenere un risultato duraturo nel tempo: le sue esposizioni, semplici silhouette chiare su fondo scuro (ottenute facendo cadere un fascio di luce su tavole cosparse di cloruro d’argento, e su cui si appoggiava l’oggetto che si desiderava ritrarre), svanivano non appena venivano esposte alla luce per osservarle.

Bisogna aspettare il 1819 perché Humphrey Davy e John F. Herschel scoprano che l’iposolfito di sodio fissa i sali d’argento. Le scoperte fatte sin qui vengono messe a frutto da Louis Hippolyte Bayard, che nel 1839 espone la prima mostra fotografica della storia con trenta immagini di Parigi.

Nel 1878 la tecnica è progredita al punto che è possibile realizzare istantanee a un venticinquesimo di secondo con i primi apparecchi portatili. Sono stati costruiti i primi teleobiettivi ed è stata introdotta la pellicola di nitrocellulosa come supporto per il cloruro d’argento; nel 1916 la Kodak produce il primo telemetro accoppiato alla messa a fuoco dell’obiettivo, e successivamente (1928) la prima pellicola a colori, la Kodacolor. Poco dopo nasce il flash, costituito da una lampada elettrica alimentata da fogli di alluminio che bruciano rapidamente, sprigionando una vampata di luce e calore.

Il fenomeno fotografico comincia a svilupparsi più rapidamente durante gli anni ‘40 del Novecento, quando cominciano a venir prodotte pellicole con correzione automatica del colore e le prime macchine fotografiche automatiche, rendendo la fotografia un’operazione alla portata di tutti. In questi anni nascono la Polaroid e la Hasselblad, destinate a lasciare il segno nel mondo della fotografia.

Negli anni ‘60 viene prodotto il primo obiettivo a focale variabile (lo Zoomar 36-82mm f/2.8), l’otturatore raggiunge la velocità prima impensabili (1/2000 di secondo, e la velocità di sincronizzazione col flash di 1/125) e le macchine fotografiche vengono dotate dei primi sistemi di misurazione automatica dell’esposizione attraverso l’obiettivo (TTL, through the lens), che permette di eseguire l’esposizione della scena con maggiore precisione di quella consentita dalle macchine a focale sovrapposta.

I progressi della tecnica non si fermano, fino a giungere alla prima macchina digitale: nel 1981 Sony annuncia il primo sistema a supporto magnetico, destinato a sostituire la pellicola. Ma la prima DSLR (digital single lens reflex) è prodotta da Kodak nel ‘91, ha un sensore da 1,3 megapixel e necessita di un hard disk esterno per memorizzare i dati delle immagini. È una vera rivoluzione, ma la fotografia digitale ha ancora molta strada da fare.

Tra gli anni ‘80 e ‘90 vengono introdotti i motori a ultrasuoni per la messa a fuoco automatica, che consente di focheggiare in tempi brevissimi e con poco o nessun rumore proveniente dagli apparecchi.

Nel 1999 viene lanciata sul mercato la prima reflex di nuova generazione, ossia progettata a partire da un sensore digitale per la cattura della luce, e non come una rielaborazione del modello a pellicola, pur mantenendo il formato 35mm: la Nikon D1.

Nel 2003 la fotografia digitale sorpassa definitivamente quella analogica con l’arrivo di Canon 300D, la prima reflex digitale accessibile per meno di mille euro.

4. evoluzIone dell’ImmagIne

Photographs can be used in empirical research in several ways. Many sociological categories are based on observable phenomena, and indeed, many of these can be understood better if frozen in a photographic image than they can if written about in a field memo.

Douglas Harper (1988)

La fotografia può essere considerata una grande conquista della razza umana. L’abilità tecnica di congelare un attimo, creare un artefatto duraturo raffigurante un particolare avvenimento in un dato momento, un particolare soggetto, un simbolo, un’idea, è un fine che si tenta di perseguire da sempre. L’immagine ha avuto un ruolo importante, che spesso viene riconosciuto esclusivamente alla scrittura e al linguaggio verbale: crea ricordi, genera cultura.

Ovviamente è un processo lento, che può durare millenni.

Oggi siamo in grado di approssimare che gli artefatti visivi più antichi lasciati dai nostri antenati risalgano a circa quarantamila anni fa. Si tratta delle note pitture rupestri, che raffiguravano scene di caccia. Un altro caso interessante è rappresentato dall’affresco del Panettiere di Pompei, in cui si vede chiaramente rappresentata la bottega del panettiere, con i clienti che comprano. Risalente a circa duemila anni fa, questo affresco rappresenta il primo esempio di pubblicità visiva pervenuto fino ai giorni nostri.

L’attività raffigurativa continua durante l’intera storia dell’umanità, con gli stili e le tecniche pittoriche che si vanno via via perfezionando, fino ai giorni nostri.

La fotografia viene inizialmente considerata strumento passivo della riproduzione, se ne servono i pittori per creare l’istantanea di un paesaggio a una data ora del giorno, con una certa luce, oppure per ritrarre i soggetti umani nella posa stabilita e poterli poi congedare, dipingendo il quadro con davanti la lastra statica sempre a disposizione.

A partire dal 1839, con la comparsa dei primi dagherrotipi, la fotografia comincia a imporsi come forma d’arte a sé stante, soprattutto tra la media borghesia: il nuovo metodo ritrattistico ebbe immediato successo, a causa dei costi più contenuti e dei tempi di posa molto più brevi rispetto al dipinto tradizionale, sottraendo mercato ai pittori e aprendo nuove prospettive alla portata di tutti.

Il rapido aumento della domanda di ritratti, all’inizio fece temere per il destino stesso della pittura: la posa fotografica infatti era semplice, chiunque era in grado di padroneggiarne la tecnica in breve tempo, e la rapida diffusione internazionale del fenomeno allarmò i pittori, che in esso vedevano la fine della propria professione. In realtà, col tempo, venne ridimensionato il ruolo della posa fotografica rispetto al dipinto tradizionale: se infatti la prima era vantaggiosa per costi e tempi, oltre a offrire una maggiore fedeltà nei tratti del soggetto, il secondo manteneva un enorme vantaggio, quello del colore e dell’espressività, del tocco umano del pittore, che era in grado di dare al ritratto sfumature allora impossibili da catturare con un apparecchio meccanico.

L’utilizzo della fotografia divenne ausilio indispensabile per i pittori, e tutti ne facevano uso, i qualità di diario mnemonico ma non solo; le pose erano utilizzate anche per approfondire lo studio dei chiaroscuri, o per scegliere il taglio da dare al dipinto. Pur disprezzando il mezzo fotografico come mero ausilio della vera creazione artistica, i più grandi artisti cominciarono a scambiarsi foto di opere e modelli, consentendo la nascita di nuovi mestieri. Soprattutto a Londra e Parigi cominciano a diffondersi raccolte di immagini, i primi fotografi professionisti crearono dei veri e propri album, molto utili per pittori e artisti da utilizzare come punto di partenza per le loro opere.

L’avvento del Realismo è un’ulteriore spinta, in quanto il dettaglio comincia ad assumere un’importanza di primo piano nell’opera, molto più che nel periodo del Romanticismo, in cui invece l’attenzione era incentrata sull’idealizzazione del soggetto.

Nel 1888 arriva la prima macchina fotografica con pellicola a rullo, in grado di scattare con tempi tanto brevi da potersi definire un’istantanea (si parla di qualche secondo, il concetto di istantanea viene rivisto col progredire delle possibilità tecniche nel tempo).

La diffusione del fenomeno è ormai di tale portata che la pittura tradizionale rinuncia a confrontarvisi; nasce così l’Impressionismo, come rifugio da quella perfezione riproduttiva dell’attimo che la rapidità del mezzo tecnico rendeva ormai più pratica del ritratto tradizionale, al punto da ritagliarsi un suo posto nel mondo come metodo espressivo a sé stante. In questo periodo comincia anche la sperimentazione con filtri e coloranti, che consentono di ottenere fotografie sfumate e paesaggi dai colori impossibili. Viene perfezionato il metodo di riproduzione della calitipia, evoluzione naturale del dagherrotipo, che aveva una precisione inferiore nella riproduzione dei dettagli, ma consentiva la stampa di più copie a partire da un singolo negativo originale.

Nel 1859 la fotografia diventa mezzo di narrazione con i pionieri di National Geographic. Da quegli anni in poi viene raccolto un patrimonio illustrativo immenso: ogni fotografo poteva tornare dal suo incarico con 800 rullini da sviluppare, per un totale di 20.000 foto. Non tutte però venivano pubblicate, dalla prima scrematura venivano scelte le 80 foto migliori, di cui solo 30 sarebbero poi state stampate, mentre il resto rimane unicamente come archivio.

Il colore diviene possibile nel 1927, e in breve si afferma soprattutto sulle riviste americane.

La fotografia comincia a essere usata come metro del proprio status sociale, e viene scoperto il suo potenziale affabulatorio: un ritratto in abiti sfarzosi presi in prestito e finti fondali poteva essere sfruttata anche dal più umile cittadino per pavoneggiarsi e offrire alla società un’immagine alterata del suo status.

Negli anni ‘20 oltre millecinquecento lastre a colori vengono pubblicate dal solo National Geographic, tra queste spiccavano le prime immagini subacquee. Le pellicole di allora non permettevano ancora di fotografare con precisione soggetti in movimento, inoltre sott’acqua la luce è minore, per cui il fotografo Charles Martin escogitò una soluzione ipersensibilizzante per consentire alla poca luce di impressionare le lastre in tempi minori. In seguito, per migliorare i risultati, adottò l’espediente di incendiare mezzo chilo di polvere di magnesio per illuminare la scena, creando il primo flash subacqueo.

La polvere veniva trasportata su un galleggiante, e doveva essere sostituita prima di ogni nuovo scatto, assieme ai collegamenti elettrici che innescavano la combustione.

Nel 1936 la pellicola a colori viene migliorata dai laboratori Kodak, fino a ottenere tre strati sensibili a diversi colori, rosso, blu e verde. I cristalli d’argento vennero schiariti e poi sostituiti con colori trasparenti, in modo da eliminare la granulosità delle foto e consentire un maggiore ingrandimento senza perdere qualità e nitidezza.

Questa scoperta spianò la strada alle pellicole di medio formato, le 35mm, che si affermarono rapidamente anche perché consentivano di ridurre l’ingombro rappresentato dalle apparecchiature di grande formato.

Nel 1989 il flash rudimentale di Martin è stato perfezionato e integrato con sistemi di comando a distanza e fotocellule sensibili al movimento, utilizzate soprattutto per la fotografia naturalistica – e in seguito integrate negli impianti di sicurezza a circuito chiuso – che consentivano di scattare dalla distanza con più apparecchi contemporanea- mente, a comando oppure al passaggio di qualcosa che facesse scattare le fotocellule.

5. la fotografIa In ambIto musICale

Gottlieb was not taking pictures; he was photographing a music, Again and again, he catches the precise moment when the musician’s face is suffused with effort and emotion and beauty: the music is there.

Whitney Balliett, The Newyorker

[William Gottlieb] can communicate the meaning of a moment in an image. Only the greatest photographers have that ability... You feel like you were there.

Wynton Marsalis, Artistic Director of Jazz at Lincoln Center

Il binomio musica/fotografia appare oggi scontato: è impossibile assistere a un concerto senza notare i LED, le luci e i flash di centinaia – ovviamente parlando di spettacoli di una certa importanza – di dispositivi fotografici in azione, tutti puntati sul centro del palco ma perché no, anche a caso tra gli spalti, a documentare non solo la performance artistica, ma l’attimo, la condivisione, la collettività del momento. In fondo, come vedremo, il 99% di questo materiale finirà unicamente su Facebook.

L’incontro tra le due forme di arte risale a quasi un centinaio di anni fa. Per trovare i primi ritratti di musicisti all’opera bisogna risalire agli anni ‘30, quando l’introduzione di flash stroboscopici e pellicole a esposizione veloce (per l’epoca, ma ben più lente di quelle disponibili oggi) cominciarono a permettere la realizzazione di istantanee in condizioni di scarsa illuminazione, le condizioni cioè in cui quasi sempre si trova a lavorare il fotografo di eventi live.

5.1 Gli esordi

Pioniere del genere fu certamente William Paul Gottlieb (1917-2006), di Brooklyn. Nel 1938 cominciò a occuparsi di una rubrica sulla musica jazz per il Washington Post; dato che il giornale non intendeva pagare un fotografo che si recasse ai concerti, Gottlieb acquistò di tasca sua l’attrezzatura necessaria e imparò a utilizzarla per conto suo, chiedendo di tanto in tanto aiuto ai colleghi fotografi del Post.

Visti i costi non indifferenti della pellicola, egli si limitava a pochissimi scatti per concerto, prestando particolare attenzione alla composizione e alla posa degli artisti ritratti. E le sue foto ebbero un riscontro immediato.

Non solo stava nel posto giusto al momento giusto, ma aveva anche talento

dice il collega fotografo Jeff Sedlik.

Questo era solo l’inizio, ma per capire quanto il fenomeno sia stato rivoluzionario e pervasivo della nostra cultura è interessante riscontrare l’esposizione mediatica che gli scatti di Bill Gottlieb hanno avuto e continuano ad avere. Oltre 250 delle sue foto sono poi diventate copertine di dischi, lasciando un segno nella memoria di molte generazioni; nel ‘94 alcuni scatti sono stati utilizzati dal Servizio Postale degli Stati Uniti per creare francobolli commemorativi; ancora oggi le sue foto sono appese nei più famosi jazz club del mondo, e figurano incorniciati sui fondali in molti film.

Come disse David Was, collega di NPR:

Some of Gottlieb’s images are as famous as the musicians themselves. He will be best remembered as the sharp-eyed witness to one of the most creative musical decades in American history.

Was ha colto nel segno. Molte foto scattate da Gottlieb sono rimaste famose quanto l’artista che raffigurano, sono scolpite nell’immaginario collettivo e spesso hanno lasciato un segno indelebile nella formazione della nostra cultura. Inoltre, talvolta, rappresentano il musicista in maniera persino più completa rispetto ai brani che questi ha prodotto (anche in virtù del fatto che per l’uomo la vista prevale sull’udito).

In questa fase di crescita della fotografia l’attenzione è incentrata principalmente sulla composizione e la scelta del momento migliore. Le macchine fotografiche dell’epoca erano decisamente meno efficienti di quelle odierne, per cui le possibilità creative in tal senso erano scarse; inoltre il numero di scatti era limitato dal rullino.

La lezione di Gottlieb è semplice ed essenziale: quello che rende uno scatto una grande foto è la scelta dell’attimo, quel momento particolare in cui l’artista compie quel gesto particolare che lo contraddistingue. Per questo motivo il fotografo studia le performance dei musicisti prima di fotografarle, in modo da sapere già quali sono i momenti migliori per scattare. Gottlieb assisteva a diversi spettacoli prima di fotografare un artista, in questo modo annotava mentalmente le caratteristiche dello spettacolo e si faceva un’idea preventiva degli scatti che avrebbe dovuto realizzare.

William Gottlieb fa fare alla fotografia un grande passo avanti: non è più semplicemente la documentazione di un fatto, ma diventa forma espressiva, per il fotografo e per il musicista stesso. Un suo grande merito è anche quello di comprendere che il rapporto tra fotografo e musicista va coltivato, per entrare in simbiosi col soggetto in modo da non influenzarne negativamente la performance – e la posa, soprattutto – durante l’esibizione.

Quest’aspetto era più importante un tempo di quanto non lo sia ora: potendo disporre di una vasta gamma di teleobiettivi, la possibilità di scattare foto anche da grandi distanze fornisce una valida soluzione a questo problema, mentre una volta l’obiettivo standard per tutti i fotografi era il 50mm, che restituiva un angolo di visuale e un fattore di ingrandimento del soggetto molto limitato, costringendo l’operatore a lavorare molto vicino alla scena che intendeva riprendere.

5.2 Verso nuove forme espressive

Un’ulteriore evoluzione si ha negli anni ‘60, parallelamente alla nascita delle prime rockstar – allora l’accezione era connotativa, e non spregiativa. Di questo periodo rimangono nella storia le foto di Jim Morrison, Jimi Hendrix e i Beatles.

La tendenza è di raffigurare l’artista non più sul palco (le foto live continuano a essere prodotte, ma si comincia a utilizzarle in maniera contestualizzata, in riferimento a un particolare evento), ma in pose ben studiate. Il fotografo non è più semplice reporter di un evento – spesso non si tratta nemmeno di un evento, le foto vengono realizzate in studi specializzati e attrezzati – ma diventa direttore artistico, cura le luci, la posa, la tecnica, e concorda con i musicisti le tematiche, i fondali, l’abbigliamento e tutti i dettagli delle foto.

Nel 1967 Joel Brodsky ritrae Jim Morrison a torso nudo, primo piano su sfondo bianco; il cantante indossa una collanina, posa a braccia larghe, sguardo intenso fisso in camera. Le luci sono studiate attentamente, lo scatto in sé non ha nulla da invidiare alle moderne produzioni di moda. Il carisma del personaggio è tangibile ancora oggi, osservando questi scatti. Nonostante Morrison fosse già famoso, sicuramente queste immagini hanno contribuito al suo successo, perpetrandolo fino ai giorni nostri e implementando il culto nei suoi fan. Il cantante Jim Morrison è rimasto un’icona, cioè un’immagine, e l’immagine che rimane sedimentata nell’immaginario collettivo è proprio la foto di Brodsky.

Nello stesso periodo Richard Avedon realizza per i Beatles i famosi ritratti in bianco e nero, poi colorati in maniera vivace per dare vita ai quadretti psichedelici che inaugurano la nascita della cultura pop. Le pose sono semplicissime – primi piani posati, con grande attenzione ai chiaroscuri. Anche stavolta il fondale è un colore neutro, massima attenzione sul soggetto.

È da citare anche la collezione di Jimi Hendrix firmata da Gered Mankowitz, in cui l’artista è ritratto mentre soffia una nuvola di fumo dalla bocca, reggendo una sigaretta in mano, con indosso la sua celebre giubbetta. Anche queste foto, originariamente in bianco e nero, furono successivamente colorate ottenendo gli effetti più disparati, e vengono utilizzate ancora oggi per le ricorrenze e le riedizioni dei vecchi dischi.

Questi primi esempi sono importanti perché rappresentano il capostipite di una nuova moda: la fotografia non è più strumento passivo, che descrive unicamente un fatto o un evento, ma diventa strumento attivo di rappresentazione della persona. Attraverso il procedimento creativo – che comprende la posa, la scelta delle luci, il trucco, la cura dell’abito e della location – il fotografo instaura un rapporto di sinergia con la star, per ottenere un risultato che non rappresenta il musicista come è realmente sul palco o (tantomeno) nella vita reale, ma come egli vuole essere visto.

Nel 1979, con l’uscita di London Calling dei Clash, la fotografia di copertina non si limita più a descrivere l’artista, ma diventa simbolo di un momento storico e culturale, di una fase di cambiamento e rivoluzione musicale. Dobbiamo lo scatto a Pennie Smith, che in un primo momento l’aveva scartata in quanto fuori fuoco. La spuntò Joe Strummer, frontman della band, che la voleva in copertina a tutti i costi; e la storia gli ha dato ragione.

L’energia e la violenza catturate da Smith inaugurano la stagione del rock and roll e del punk. Tra i professionisti più prolifici dell’epoca troviamo Neal Preston, celebri i suoi ritratti live di band come Queen, Led Zeppelin, The Who, Bob Marley e Police.

Nel ‘70 nasce la rivista Rolling Stone, il primo magazine dedicato al mondo del rock. Il terreno è quello giusto per coltivare il talento di fotografi come Annie Leibovitz, che in soli tre anni diventa prima fotografa del magazine. La sua foto più celebre è certamente il ritratto di John Lennon e Yoko Ono, realizzata nel 1980. In questo caso certamente, oltre alla posa inusitata, trasgressiva e rivoluzionaria, ha pesato anche il fatto che Len- non sia stato ucciso meno di cinque ore dopo aver posato per lo scatto.

Ricorda la Leibovizt:

Mi recai da John Lennon per fargli una foto, che gli promisi sarebbe stata la copertina del pros- simo numero. Io volevo una sua foto da solo, ma lui insistette per posare assieme a Yoko Ono. Ricordo che lei voleva togliersi la camicia, ma io le dissi di rimanere vestita. Poi John si è ran- nicchiato contro di lei e il risultato era davvero molto forte. Non potevi fare a meno di pensare che lui avesse freddo e si stringesse contro di lei. Fu molto emozionante visionare gli scatti, e sia io che lui eravamo molto contenti. John mi disse: “Hai rappresentato perfettamente la nostra relazione. Promettimi che sarà sulla copertina”.

Questo frammento, riportato proprio su Rolling Stone (2007, numero 335), aiuta a comprendere meglio l’evoluzione del rapporto tra fotografo e artista. Un rapporto che talvolta si consolida fino a dare vita a delle lunghe e proficue collaborazioni, di cui l’esempio più eclatante è quello dato da Anton Corbijn.

Il fotografo danese ha cominciato la sua carriera negli anni ‘70, e si distingue subito con la foto fatta per i Joy Division, in cui ritrae gli artisti in una posa innovativa, di spalle. Dagli anni ‘80 fino a oggi Corbijn ha instaurato un rapporto di lavoro continuativo con la band irlandese U2, per cui ha realizzato le fotografie di The Joshua Tree e Actung Baby, oltre a diversi reportage dal vivo (sue furono le foto del primo tour della band negli Stati Uniti) e diversi videoclip.

Il rapporto che Corbijn ha saputo coltivare con gli artisti è incredibile, nel suo portfolio si possono trovare magnifici scatti di Bono immerso nella vasca da bagno che fuma un grosso sigaro e beve champagne – solo con notevole abilità e persistenza si può riuscire a vincere le naturali resistenze dettate dal senso della privacy e dal pudore di una persona, sia pure un personaggio mondiale come il cantante degli U2.

6. fotografare un ConCerto

Può sembrare da quanto analizzato fin qui che la pratica della fotografia live sia ormai in declino. In realtà esiste ancora un grande mercato per gli scatti dal vivo, anche se ogni giorno si scontra con l’evoluzione della tecnologia e con l’aumentare del materiale dilettantesco reperibile sul web.

I grandi tour degli artisti importanti hanno sempre un nutrito gruppo di fotografi ufficiali, che seguono l’intera stagione di concerti, oltre a professionisti freelance o assoldati da riviste, giornali, blog e associazioni locali, che si alternano durante le varie date a seconda di disponibilità e vicinanza.

Queste persone hanno la responsabilità di realizzare reportage di alta qualità sulla performance dell’artista in questione, senza tralasciare l’aspetto artistico. I fortunati che vengono ingaggiati direttamente dalla band quasi certamente realizzeranno gli scatti migliori, sia per il talento che li ha fatti preferire a migliaia di altri, sia perché l’operatore ufficiale del tour ha accesso esclusivo al backstage e a postazioni privilegiate da cui scattare, e non deve sottostare alle limitazioni di tempo che penalizzano i colleghi freelance. Per tutti gli altri l’ambiente è estremamente competitivo, chi realizzerà gli scatti migliori forse potrà essere ricontattato dalla band, per progetti futuri, o semplicemente vendere i file digitali al miglior offerente.

Gli operatori del settore si scontrano ogni giorno con l’esigenza di presentare prodotti di qualità eccelsa, onde evitare di essere esclusi dal mercato: a causa della mole incredibile di immagini amatoriali che viene prodotta e distribuita gratuitamente dagli utenti del web 2.0, diventa via via più complicato essere presi in considerazione quando si propongono i propri lavori.

6.1 Normativa e foto illegali

È doverosa una precisazione: nonostante la legge stabilisca che è consentito fotografare personaggi famosi (in quanto il diritto alla privacy si configura per un individuo nel momento in cui questi non desideri essere esposto alla notorietà, principio che non è applicabile a un artista, dato che è già noto), nella maggior parte dei casi non è consentito filmare e fotografare le performance degli artisti, a meno di non essere in possesso di un pass rilasciato dagli organizzatori dell’evento in accordo con il committente o il fotografo stesso; tuttavia questa norma viene solitamente applicata solo all’uso di macchine professionali – sarebbe un’impresa ardua tentare di sequestrare i cellulari e le compatte tascabili alle migliaia di persone che affluiscono solitamente a questi eventi, per cui le riprese con attrezzature amatoriali sono generalmente tollerate.

Ma anche se rimangono illegali e quindi in teoria non utilizzabili, la loro mera esistenza intacca il valore del lavoro regolare: la foto di un professionista non ha più lo stesso peso editoriale, per quanto bella possa essere, se in rete è possibile reperire gratuitamente materiale inerente alla stessa performance.

Secondo la legge:

per pubblicare con finalità giornalistiche immagini di personaggi famosi non occorre autorizzazione. Occorre autorizzazione in ogni caso e comunicazione al Garante se la pubblicazione può risultare lesiva (legge 633/41), oppure se fornisce indicazioni sullo stato di salute, sull’orientamento politico, sul credo religioso o sulla vita sessuale (dlgs 196/2003).


Occorre autorizzazione in ogni caso se le immagini vengono usate con finalità promozionali, pubblicitarie, di merchandising o comunque non di prevalente informazione o gossip.

La posizione dell’artista riguardo alle foto scattate dal pubblico sta però mutando nel tempo. Una volta le regole erano più rigide, non era permesso scattare foto durante l’esibizione e c’era il rischio di incorrere in sanzioni ed essere allontanati dalla sala; ma oltre all’impossibilità fisica di perquisire migliaia di persone alla ricerca di moderni cellulari con videocamera, gli artisti hanno capito che la mole di materiale prodotta dal pubblico sarà per loro unicamente d’aiuto, dato che verrà condivisa facendo loro pubblicità, ma non sottrarrà vendite, perché non potrà competere in qualità con le release ufficiali.

Ci sono stati addirittura dei casi eclatanti (i più recenti quelli di Pink e Beyonce) in cui l’artista non ha concesso accrediti a nessun fotografo professionista. L’entourage dell’artista in questi casi ha fatto affidamento unicamente sul fotografo ufficiale e sulle foto del pubblico, che per la prima volta sono state selezionate acquistate direttamente, pagando gli spettatori artefici degli scatti migliori. Questo avvenimento segna una svolta per la fotografia di live, che vede i professionisti del settore sempre più in difficoltà.

Un vantaggio che il fotografo professionista avrà sempre rispetto al pubblico, oltre al permesso di utilizzare attrezzatura superiore, è la posizione. Gli operatori autorizzati possono scattare da spalti riservati, che garantiscono visuale libera sui punti migliori del palco, e senza essere intralciati dalla folla.

6.2 L’attimo, il pathos, l’inquadratura

Non lo dicono solo gli appassionati: [...] la componente visiva è essenziale. Si può comprendere un brano fino in fondo solo se si può assistere alla sua esecuzione.

Il critico francese André Hodeir ha spiegato che il jazz, molto più della musica europea, è l’espressione più autentica di un feeling corporeo, proprio perché coinvolge in modo totale il musicista e viene interpretato con tutto il corpo.

Joachim-Ernst Berendt, Fotostoria del jazz

Quando si assiste a un concerto sono diverse le cose che colpiscono lo spettatore. Indubbiamente la componente visiva ha da sempre avuto un ruolo fondamentale fin dai tempi del jazz e del blues, e questo fattore sta diventando sempre più importante col passare degli anni. Elementi di intrattenimento di natura puramente visiva, come balletti, spettacoli pirotecnici e proiezioni su megaschermi, fanno ormai parte della scenografia della maggior parte degli spettacoli.

Alcuni artisti hanno fatto da apripista a quelle che oggi sono tendenze collaudate e consolidate: nel pop ricordiamo gli spettacoli di Madonna, che schiera ogni volta un intero corpo di ballo per dare vita a coreografie molto elaborate, con tanto di cambio d’abito tra un brano e l’altro.

Nel ruolo di maestri dei fuochi d’artificio rimangono ineguagliati i Kiss, che continuano ancora oggi (dopo una carriera che dura da quarant’anni esatti) a proporre spettacolari esplosioni e giochi pirotecnici durante la loro performance. La band di Detroit va sicuramente ricordata anche per il look singolare con cui va in scena: abiti sgargianti e scintillanti, zeppe iperboliche e le pitture facciali che li contraddistinguono e che sono diventate il loro marchio di fabbrica.

6.3 Le limitazioni: scarsità di luce e velocità d’azione

Circoscrivendo il discorso all’ambito tecnico della fotografia – tralasciando quindi gli aspetti legali e contingenti – gli ostacoli maggiori sul cammino del fotografo di concerti (o eventi in generale) sono dettati dalla luce e dal tempo. I concerti di una certa importanza si tengono su palchi, all’aperto o al chiuso, su cui non è possibile gestire la luce in maniera efficiente dal punto di vista fotografico.

Nel caso delle arene all’aperto l’ausilio della luce solare è spesso vanificato dagli orari dell’esibizione, che solitamente comincia dopo il tramonto. In ogni caso ci si deve affidare all’illuminazione artificiale. I sistemi di illuminazione dei grandi palchi sono estremamente sofisticati e permettono di gestire con grande precisione l’arrangiamento dei giochi di luce (per fare un esempio: un sistema molto usato soprattutto nell’elettronica e nel metal è quello di collegare il meccanismo di switch delle luci a un trigger che riceve il segnale dal microfono della grancassa, in questo modo le luci sono sincronizzate con la batteria e cambiano ogni volta che la grancassa viene suonata dal batterista sul palco). Tuttavia questi impianti non sono in grado di garantire una corretta illuminazione degli artisti sul palco, che possono trovarsi in ombra o rivolti dal lato opposto a quello illuminato.

Contribuiscono a rendere difficoltosa l’esposizione anche le scenografie e i costumi di scena: i fondali spesso rimangono privi di illuminazione, per massimizzare l’attenzione sull’artista, e questo toglie ulteriore luce agli scatti. I costumi di scena possono essere un grande aiuto quando sono chiari o colorati in maniera vivace. Ma possono anche creare problemi se sono scuri – soprattutto nel rock, hardcore e metal la tendenza è a vestirsi completamente di nero durante le esibizioni –, perché oltre a non riflettere luce si confondono con i fondali, traendo in inganno la messa a fuoco automatica delle reflex, che funziona misurando il contrasto tra le aree di luce e quelle di ombra.

Un altro problema è la velocità dell’azione che si riprende: il cantante corre e salta per tutto il palco, pieno di energia, per coinvolgere le prime file, e questo espone il fotografo al rischio di ritrovarsi con foto mosse o fuori fuoco. È una sfida che mette sempre a dura prova sia l’operatore sia la macchina: l’uomo si occupa di scegliere l’attimo (tentando di cogliere l’istante perfetto in cui l’artista compie quel particolare gesto, e lo compie lentamente, tanto da poter essere immortalato), mentre il sensore e i processori si occupano di gestire la messa a fuoco.

Viste le condizioni poco favorevoli, il modo migliore di procedere a uno shooting dal vivo e quello di aprire il più possibile il diaframma, per consentire più luce di impressionare il sensore. Col diaframma aperto si passa a scegliere i tempi di scatto. A seconda del tipo di performance (fotografare i Metallica, occupati in intense sessioni di headbanging, non è la stessa cosa che riprendere il violoncellista Yo-Yo Ma mentre esegue un brano, comodamente seduto sul suo sgabello) si sceglie una velocità dell’otturatore tale da congelare il movimento. Le impostazioni ISO entrano in gioco subito dopo: dopo aver trovato le impostazioni giuste per quanto riguarda diaframma e tempi si agisce sulla sensibilità – generalmente aumentandola – fino a ottenere l’esposizione ottimale.

Le macchine compatte eseguono queste operazioni in automatico, e optano quasi sempre per l’utilizzo del flash incorporato. In questo modo modificano e appiattiscono le luci reali della scena, e gli alti ISO restituiscono solitamente fotografie molto sgranate. Le reflex più sofisticate sono in grado di lavorare con ISO molto elevati e restituire immagini nitide e quasi prive di rumore, senza fare utilizzo di luci supplementari come flash o lampade; è soprattutto questo che fa la differenza, le macchine di fascia media funzionano bene sotto ogni punto di vista, ma cominciano a mostrare le loro debolezze quando è necessario incrementare la sensibilità ISO e mettere a fuoco con poca luce.

6.4 I progressi della fotografia digitale

Le moderne tecnologie digitali sono progredite al punto che gli apparecchi top di gamma delle varie case produttrici sono ormai in grado di focheggiare in tempi estremamente veloci anche in condizioni di assenza totale di luce: una fotocellula posta sul corpo macchina (o su un flash esterno, nel caso in cui si voglia adottare una fotocellula più potente) consente di lanciare impulsi luminosi che, colpendo il soggetto, ne consentono la messa a fuoco immediata senza influenzare l’illuminazione naturale della scena.

Inoltre la gestione del rumore e dell’aberrazione cromatica in condizioni di ISO elevati ha subito un’evoluzione incredibile negli ultimi anni. Fino a una decina di anni fa la maggior parte delle pellicole a disposizione variavano tra 100 e 3200 ASA (che è il vecchio standard, poi sostituito dagli ISO); le reflex di nuova generazione dispongono di un sensore capace di variare tra ISO 50 e 100.000, aprendo nuovi mondi di possibilità creative in condizioni di scarsa illuminazione.

7. I soggettI

Come si è visto, l’immagine è un mezzo di comunicazione molto potente, persistente e capace di stratificare nell’immaginario collettivo. Chi sa come servirsene è in grado di veicolare, tramite le immagini, contenuti che influenzano e fidelizzano i fruitori, proprio come avviene per la pubblicità (soprattutto in televisione).

Ma questo procedimento presenta effetti collaterali sia per i destinatari che per i mittenti di questi contenuti. Si vede infatti che sempre più spesso gli artisti sono come prigionieri dell’immagine che hanno creato per il pubblico. Per dirla con le parole di Erving Goffman:

Quando un individuo compare alla presenza di altri,avrà generalmente qualche buon motivo per agire in modo da comunicare agli altri quell’impressione che è suo interesse dare.

L’analisi del sociologo si riferisce all’essere umano in quanto tale, dato che chiunque volente o nolente è costretto dal vivere in società ad assumere diverse maschere a seconda delle persone con cui si trova in un dato momento. L’argomento è di particolare interesse, dato che assimila la vita di un uomo qualunque a uno spettacolo, una messa in scena: proprio come un’esibizione musicale.

Ma mentre Goffman descrive le due modalità della recita sociale (ovvero quella verbale e quella non-verbale), nonostante la sua trattazione si riferisca soprattutto alla seconda, definendola “teatrale e contestuale” e soprattutto “generalmente non intenzionale”, egli ammette la possibilità che questa possa essere “più o meno volutamente costruita”. Ovvero, gli attori della recita sociale inscenano volontariamente un determinato comportamento per ottenere una determinata reazione dai presenti.

Nel caso più banale e frequente, la reazione che si desidera è il consenso, che in ambito musicale possiamo definire come “successo”. L’analisi di Goffman dimostra chiaramente che un individuo, dopo aver ottenuto la reazione che desiderava, tenderà a ripetere la pattern comportamentale che lo ha portato a ricevere l’approvazione degli astanti.

Questo è vero anche e soprattutto nella musica, in cui spesso l’originalità è costretta a lasciare il posto a un certo manierismo, ai fini di accaparrarsi parte del successo di qualcuno emulandone le opere.

Quanto detto accade per quanto riguarda sia le composizioni musicali sia la produzione iconografica, l’esempio forse più lampante degli ultimi anni è rappresentato dagli inglesi Oasis, che hanno basato la loro intera carriera sull’emulazione dei Beatles: tutto, dalla composizione musicale all’abbigliamento, dal taglio di capelli alla rappresentazione iconografica, sembra essere (e sicuramente è) stato studiato a tavolino per ricreare quell’atmosfera creata dagli Fab Four di Liverpool.

7.1 La maschera dell’artista

La creazione del personaggio è presupposto indispensabile al raggiungimento del successo, il personaggio non è una persona normale agli occhi del pubblico, è una sorta di superuomo (“portatore di una soluzione alle contraddizioni della società, sopra la testa dei suoi membri passivi”, per dirla con Umberto Eco). Il personaggio è una sorta di scudo dietro al quale si nasconde l’artista/uomo, e grazie al quale è possibile raggiungere e popolare l’immaginario delle persone.

Quando si parla dei Kiss viene in mente il trucco da clown e la lingua insanguinata di Gene Simmons, ovvero il personaggio, mentre tra il grande pubblico nessuno conosce veramente l’uomo dietro la maschera.

7.2 La mascotte e i personaggi costruiti

Ci sono stati casi in cui il personaggio dietro a cui si nascondono gli artisti era semplicemente una maschera inanimata, per esempio con la band inglese Iron Maiden, la cui mascotte, Eddie, una sorta di zombie umanoide dalle molte facce, ricompare puntualmente su ogni singola copertina da oltre trent’anni. Si tratta di una maschera molto comoda, perché permette all’artista di mantenere un maggiore anonimato ed essere preso meno a modello, ruolo che ricade sulla mascotte.

La tendenza prevalente comunque è quella, laddove non ci sia a disposizione un artista con una forte personalità, di inventarsi un personaggio dal nulla. È il caso di band come i Tokyo Hotel o Justin Bieber, fenomeni creati appositamente per soddisfare le esigenze di una fetta di mercato ben delimitata e localizzata. Seguendo le regole di Goffman, al personaggio è richiesto di avere determinate caratteristiche per ottenere il successo, ovviamente la casistica non viene più fatta con esperimenti e tentativi, ma analizzando gli esempi a disposizione di artisti attualmente baciati dal successo.

Ovviamente questo ha creato, soprattutto negli ultimi anni, una spirale viziosa di emulazione, che ha impoverito la produzione sia musicale che iconografica. Il risultato di questo processo è stato lo sviluppo di una certa resistenza da parte del pubblico ai nuovi artisti, che spesso vengono paragonati all’oggetto della loro emulazione.

A livello musicale il mercato ha cercato di riprendersi da questo calo di interesse cambiando approccio di produzione: la loudness war, la guerra dei volumi, che imperversa tutt’ora, è uno degli approcci maggiormente battuti. In pratica consiste nell’utilizzo di moderni compressori e limitatori sonori, che consentono di livellare le dinamiche musicali dei brani in modo da aumentarne l’emissione sonora media: un brano che, a parità di impianto e diffusione, suona più forte, verrà presumibilmente sentito da più persone, verrà percepito più nitidamente e, in generale, lascerà un ricordo più duraturo. Anche se duramente contestato da musicisti e audiofili, a causa della perdita della dinamica naturale del suonato e del cantato che questo procedimento comporta, l’approccio del volume pare funzionare sul grande pubblico.

Dal punto di vista iconografico, invece, la tendenza è di creare personaggi estremi, iperbolici, a cui il pubblico non sia assolutamente avvezzo – non perché i temi e contenuti proposti siano originali, ma semplicemente perché più espliciti e trasgressivi di quanto non fosse stato sperimentato fin’ora. Un esempio su tutti è quello di Madonna, diva trasgressiva degli anni ‘80, e di Lady Gaga, artista controversa, appariscente e sopra le righe dei giorni nostri. L’offerta musicale e iconografica delle due done è simile, ma si nota immediatamente come la seconda tenda a superare la prima quando si tratta di portare all’iperbole l’immagine del personaggio, con abiti sgargianti e cappelli vistosi al limite dell’inopportuno. È anche mutato il piano semantico della comunicazione: mentre Madonna scandalizzava con i suoi contenuti, Lady Gaga sembra farlo soprattutto con la sua immagine, in particolare con l’uso (o, più spesso, con il mancato uso) di capi d’abbigliamento.

7.3 Il ruolo dell’immagine nella costruzione delle moderne rock star

La ricerca del successo muove gli artisti in questo mondo dominato dall’immagine, in cui chi ha la voce più alta e l’abito più colorato è solito attrarre la maggiore attenzione. Ma i pericoli non sono finiti nemmeno una volta raggiunto l’obiettivo. Sempre seguendo Erving Goffman, non è sufficiente compiere un’azione in modo da ottenere la reazione desiderata: è estremamente importante circoscrivere le mosse e le circostanze che hanno prodotto quel risultato, onde poter replicare l’esperimento, e si deve mantenere la maschera per evitare di “perdere la faccia”, ovvero trovarsi nella situazione di vedere il proprio personaggio venir messo in discussione.

Questo principio è valido per tutto il genere umano – chiunque mantiene il dovuto contegno in ufficio, davanti a colleghi e superiori, e magari in un altro contesto si abbandona a considerazioni su quanto trovi insopportabile il proprio capo, ma evita accuratamente di perdere la faccia svelando i suoi veri pensieri nel contesto in questione.

Nel caso di un personaggio famoso questo aspetto è di importanza cruciale. Per una persona ordinaria la perdita della faccia è solitamente un avvenimento di entità controllata e circoscritta – se si perde la faccia al lavoro la cosa più probabile è che la notizia non lasci mai l’ufficio –, mentre per un musicista noto può assumere dimensioni allarmanti.

Cito a questo proposito l’episodio che vide protagonista Mike Portnoy, batterista dei Dream Theater, ripreso a sua insaputa da un cellulare mentre si abbandonava a uno sfogo di rabbia con un roadie che, a suo dire, non aveva eseguito il suo dovere fino in fondo nell’allestimento del set di batteria per uno show. Lo spiacevole episodio in un attimo fa il giro del mondo in rete, con un consistente danno d’immagine per il batterista iracondo.

È chiaro che il comportamento del musicista sul palco fa parte della sua maschera, e deve quindi seguire un copione più o meno prestabilito. Ma con l’avvento e la diffusione delle moderne tecnologie di comunicazione il ruolo del personaggio si è incredibilmente ampliato. L’uomo/artista infatti è obbligato a vestire i panni del personaggio non più solo mentre si esibisce, posa per le foto o firma autografi, ma anche durante la passeggiata, mentre fa la spesa o quando va al cinema; si ritrova così nella situazione di non poter mai (o quasi) svestirsi della maschera che porta, rinunciando a quel “retroscena” di cui parla Goffman, quel luogo speciale in cui ognuno si rifugia per un attimo, tra una recita e l’altra, per un breve attimo in cui non si indossa nessun travestimento.

8. Il ruolo dell’ImmagIne nel mondo

L’importanza dell’immagine nella società contemporanea è cruciale. Si dice che “la prima impressione è quella che conta”, e la prima impressione dipende principalmente dal colpo d’occhio.

Marketing e advertising vivono su questo presupposto, e lavorano per creare ad arte l’immagine che suppongono possa andare incontro alle esigenze del mercato. Nel nostro piccolo, ciascuno di noi fa marketing, curando la propria immagine sia online che offline. Il pensiero di dover sempre apparire al meglio è un fardello che grava su milioni di persone, dato che la maschera che si indossa di volta in volta è uno strumento per ottenere determinate reazioni da parte degli astanti.

Abbiamo dato come assunto il fatto che a nessuno piaccia perdere la faccia, ma, per contro, è stato riscontrato che assistere alla pubblica umiliazione di altri agisce come un tonico per la nostra personalità. Questo è il motivo alla base della nascita di diverse piattaforme, online, televisive, cartacee, il cui unico scopo sembra essere quello di smascherare le persone, catturarle con immagini che ne svelino le debolezze e i momenti meno edificanti. Un esempio è il sito www.passedoutphotos.com, su cui vengono caricate le fotografie degli amici in pose imbarazzanti, spesso compromettenti, durante le feste alcooliche.

Community di questo tipo si collocano al limite tra goliardia e diffamazione, ma sono unanimemente accettate perché di solito le foto pubblicate vengono visualizzate solo da amici e conoscenti.

Il discorso cambia nel caso in cui vengano pubblicate immagini di un personaggio noto. Come già menzionato, le foto che ritraggono artisti famosi possono essere pubblicate liberamente, a meno che non siano considerate lesive del buon nome del personaggio. Nel caso delle paparazzate va detto che sono quasi sempre concordate tra fotografo e personaggio, una sinergia che consente al fotografo di guadagnare con gli scatti, e al personaggio di rimanere noto tramite la notizia (spesso costruita a tavolino).

Ma non è sempre così. Può capitare che cantanti o artisti famosi vengano fotografati a loro insaputa in situazioni che realmente non gradiscono veder pubblicate. In questo caso il fotografo e l’editore si riservano di decidere in base all’importanza del servizio: se la pubblicazione delle foto incriminate è tale da lasciar prevedere un aumento di tiratura e un conseguente aumento dei profitti pubblicitari, si affronta volentieri un processo con il personaggio in questione, anche a costo di perdere la causa, perché solitamente i profitti sono maggiori della penale.

Questo meccanismo ha portato nel corso degli anni a sviluppare diversi metodi di difesa da parte dei personaggi noti: c’è chi preferisce assumere un look trasandato, in modo da non risultare fuori posto quando viene fotografato al supermercato; c’è chi tenta (o finge) di custodire gelosamente la propria privacy con bodyguards e artifici scenici (Lady Gaga studia attentamente le sue entrate nei luoghi in cui si esibisce, e spesso è riuscita a sgattaiolare dentro senza essere vista, un po’ come una sposa che non si svela prima del “sì”); e poi c’è chi ha fatto della sua vita intera una recita perenne a favore delle telecamere, nel disperato tentativo di apparire sempre perfetto.

A questo proposito è d’uopo citare Paris Hilton, che ha costruito la sua fama attraverso l’immagine e continua, a distanza di anni, a tenere banco sulle riviste di gossip semplicemente apparendo, senza bisogno di esibirsi in chissà quale complicata disciplina o abilità – tra l’altro, non ne ha mai fatto mistero, non ne sarebbe nemmeno capace. Ha radici simili la cultura del posing, ovvero dell’atteggiarsi a qualcosa che in realtà non si è per ottenere un determinato risultato.

Questi assestamenti del ruolo dell’immagine rispetto alla persona ha modificato radicalmente – e continua a farlo – lo stile di vita delle persone, generando nuove tendenze, spesso emulative, lanciando community che raccolgono adesioni e testimonianze un po’ da tutte le fasce di interesse della popolazione mondiale (digital divide a parte, ovviamente).

L’avvento dei cellulari di ultima generazione, perennemente connessi, e l’integrazione forzosa dei social network (ormai per diverse selezioni lavorative l’account Facebook costituisce un requisito necessario) sono l’ultimo tassello nella creazione di mappe concettuali interamente basate su immagini: non è più importante, per esempio, andare a un concerto di un artista che si reputa degno di stima, quello che conta è pubblicare in tempo reale una foto che testimoni l’atto di presenza a tale concerto.

In seconda istanza non è importante divertirsi a questo concerto, quello che conta è postare una foto o un video che dimostrino che ci si diverte, per mantenere la maschera sempre calata. In altre parole alcuni dei tratti distintivi dello star system è dilagato al di fuori dei confini della notorietà e ha, in certa misura, coinvolto la gente comune, che ne assume tutti gli svantaggi e ben pochi dei benefit – l’unico potrebbe essere, forse, un’evanescente e blanda soddisfazione personale, che rafforzerebbe di poco un ego indebolito dall’assenza di un vero “io”, sopraffatto dalla maschera del personaggio. Il mondo è in ciò che appare, e la sua lettura passa attraverso gli occhi di chi guarda.

Ciononostante, the show must go on!

bIblIografIa

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